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L’arte realizzata a Roma nell’ultimo scorcio del 400 è sempre un’appendice minore rispetto ai raggiungimenti fiorentini, lombardi, veneti. I primi decenni del 500 furono per l’Italia un periodo di straordinario travaglio; la penisola era percorsa da eserciti stranieri e gli Stati italiani persero ogni autonomia restando in balia di forze europee quali Francia a Spagna. Il centro del movimento Rinascimentale si spostò da Firenze a Roma, che sotto i papi Giulio II e Leone X si arricchì di chiese e palazzi e divenne il punto di approdo dei più famosi artisti dell’epoca. In questo periodo la figura dell’artista cambiò profondamente: da artigiano si trasforma in maestro riconosciuto, fornito di qualità intellettuali indubbie e in grado di decidere personalmente il soggetto del proprio lavoro. La riscoperta di monumenti antichi fornì nuovi esempi di grandiosità; lo studio dell’anatomia inaugurato da Leonardo, diede la possibilità di conoscere scientificamente le forme umane, che divennero il fulcro di dipinti e sculture; anche per questo motivo l’uomo venne studiato meglio, anche nella sua psicologia. La vera protagonista di questa epoca artistica fu la ricerca della bellezza ideale. Le grandi iniziative artistiche romane del primo quarto del 500 nascono in massima parte dall’impulso e dal mecenatismo di due pontefici: GIULIO II (1503-13), LEONE X (1513-21), molto diversi per cultura e programmi politici ma accumunati nel perseguire la restauratio della grandezza monumentale e culturale della Roma papale (già avviata da Sisto IV) come presupposto del rinnovamento e della rinascita della città anche sul piano politico. La maturazione piena si ha subito all’inizio del Cinquecento con il trasferimento nell’Urbe del marchigiano BRAMANTE (1444-1514), proveniente dal ducato di Milano.

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Bramante s’installa in una città governata da Rodrigo Borgia (1430-1503 papa Alessandro VI dal 1492), che prediligeva il fasto, un’arte vistosa e celebrativa più che di sostanza. Il primo intervento bramantesco è il Chiostro della chiesa della Pace (1500-1504): privo di contaminazione di moduli gotici presenta un lessico architettonico classico, lo spazio ristretto trova uno sviluppo verticale che dilata allusivamente le dimensioni del luogo, ha due piani, il primo con archi su pilastri ed il secondo con architravi poggianti alternativamente su pilastri e colonne. È caratterizzato dalla sovrapposizione di elementi d’ordine ionico e corinzio; presenta un’architettura alla romana, con paraste ed archi a tutto sesto, mostrando un linguaggio severo, privo di ogni decorazione, tanto da differenziarsi profondamente dalle opere realizzate da Bramante durante il precedente periodo milanese, dove l’architetto aveva invece fatto ampio ricorso a decorazioni di gusto lombardo. Alla fine del 1503, l’incontro con Giulio II da poco eletto pontefice apre alla sua attività nuovi vasti orizzonti; nominato sovraintendente generale alle fabbriche papali, Bramante progetta il collegamento fra i palazzi vaticani e la residenza estiva fatta costruire da Innocenzo VIII sulla collina del Belvedere. Compreso tra due lunghe ali a ordini decrescenti, l’enorme cortile doveva articolarsi in terrazze a tre livelli, collegate da scenografiche scalinate e concluse in alto da una vasta esedra (tuttavia la costruzione di un corpo di fabbrica trasversale compromette definitivamente la realizzazione del progetto bramantesco).

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Progettato per il sovrano spagnolo (Ferdinando II e Isabella di Castiglia) come sacello o martyrium sul luogo dove una leggenda riteneva che S. Pietro fosse stato crocifisso è il Tempietto di S. Pietro in Montorio (1503-5), di ridotte dimensioni (tanto da esser contenuto in un cortile), a pianta centrale e di forma cilindrica, cinto alla base di un colonnato (16 colonne) di ordine dorico-toscano, che sorreggono una loggia e cupola; abolizione dei punti di vista privilegiati il monumento infatti si presenta quasi identico lungo tutta la circonferenza. Grazie a Giulio II Bramante progetta, imposta e amplia il coro di S. Maria del Popolo, il disegno delle vie Giulia e Lungara, il Palazzo dei Tribunali in via Giulia di cui resta il poderoso basamento, la pianta del nuovo S. Pietro: il precario stato della basilica richiedeva nuovi interventi, ciò spinge Giulio II all’audace impresa di abbattere e ricostruire l’antica Basilica Vaticana. Tra i diversi progetti elaborati dal Bramante viene scelto quello che prevede l’abbandono della tradizionale pianta a croce latina per una struttura centralizzata, con pianta a croce greca inscritta entro un quadrato, dominata da un’enorme cupola emisferica, con 4 cupole minori tra i bracci della croce e torri angolari. I lavori procedono lentamente fino al 1514 ma in seguito il progetto subisce radicali trasformazioni e viene riproposto l’impianto basilicale longitudinale. Invariati sono due elementi stabiliti dalla planimetria originale: il diametro della cupola di 40 m circa (quasi come il pantheon) e le dimensioni della crociera.

Altri architetti partecipano accanto a Bramante all’opera di rinnovamento edilizio e urbanistico di Roma, in particolare il senese BALDASSARRE PERUZZI (1481-1536), che tra il 1509 e il 1512 progetta e costruisce per il colto banchiere Agostino Chigi, la “Villa delle delizie”, detta più tardi Farnesina su un terreno circondato da giardini tra via della Lungara e il Tevere. Peruzzi costruisce un edificio a due piani, scanditi da raffinate cornici e lesene che si profilano con estrema leggerezza sul paramento murario, conclusi da un mezzanino con una cornice a festoni sotto il cornicione.

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Nella facciata verso il giardino il corpo di fabbrica si articola scenograficamente in due ali aggettanti, mentre il entro della loggia aperta al piano terreno crea un effetto di armoniosa continuità tra strutture architettoniche e ambiente naturale, in seguito accentuato dalla decorazione pittorica, cui prendono parte a più riprese, accanto allo stesso Peruzzi, Sebastiano del Piombo, Sodoma e Raffaello.

Il tema della pianta centrale suscitò diffusi interessi e fu occasione di approfonditi studi da parte degli artisti del Rinascimento. Si trattava in effetti di una tipologia architettonica che favoriva l’aspirazione a una sintesi organica e razionale delle varie parti dell’edificio, rispondendo in modo del tutto adeguato ad alcuni ideali estetici del tempo. Molteplici furono tuttavia fattori che suscitarono l’attenzione degli artisti: il primo luogo il significato simbolico attribuito dalla cultura contemporanea al cerchio, figura geometrica alla quale può essere riportata ogni pianta centrale; il cerchio era considerata forma prediletta della natura; la cupola, che conclude l’edificio a pianta centrale era assimilato al cielo. Nel clima di appassionata renovatio della cultura classica, i numerosi monumenti antichi a pianta centrale risvegliarono l’interesse e l’entusiasmo degli artisti rinascimentali. In seguito nel De Aedifictoria di Leon Battista Alberti la pianta centrale divenne modello ideale della chiesa – tempio ed edifici a pianta centrale compaiono anche sullo sfondo di affreschi e dipinti, sovente preceduti da ampie piazze lastricate, come nella Consegna delle chiavi a S. Pietro del Perugino nella Cappella Sistina o nelle rappresentazioni dello Sposalizio della Vergine dipinte dallo stesso Perugino o da Raffaello. È dall’incontro e dall’attività di Bramante e Leonardo che hanno origine le idee più gravide di conseguenze. Diversi disegni di LEONARDO nel codice B raffigurano edifici a pianta centrale, variamente articolati in pianta e coperti da cupole e semicupole, concepiti con una forte consapevolezza del valore e del significato organico della costruzione.

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Bramante poi approfondì il problema nel tempietto i S. Pietro in Montorio, concepito al centro di uno spazio porticato circolare e nel progetto per la ricostruzione della Basilica Vaticana che costituisce il punto di arrivo della meditazione di Bramante sulla pianta centrale, conferendo all’edificio dimensioni monumentali e armoniche, rendendolo immagine della perfezione dell’Universo e del suo Creatore.

MICHELANGELO e LA CAPPELLA SISITNA

 

Giulio II si avvale dell’opera di diversi autori; oltre al Bramante, l’artista che si fa più notare tra la fine del 40 e l’inizio del secolo è MICHELANGELO (Caprese-Arezzo 1475- Roma 1564 è però sepolto a Firenze). Allievo nella bottega dei fratelli David e Domenico Ghirlandaio (in cui copia le opere di Masaccio e Giotto), intese fare della sua attività un’incessante ricerca dell’ideale di bellezza, considerato già al suo tempo come uno dei più grandi artisti di sempre, tanto che il Vasari, di cui ne scrisse la biografia quando era in vita, parla di una triade divina (insieme con Leonardo e Raffaello) ponendo in cima lo stesso Michelangelo.

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A Roma nel 1505 viene chiamato per la realizzazione di un monumento funebre per il pontefice Giulio II da collocarsi nella tribuna della nuova Basilica vaticana; l’artista si reca personalmente a Carrara per la scelta dei marmi per fare rientro a Roma 8 mesi dopo e iniziare i lavori. Il progetto (ricostruibile in linee generali solo grazie alle descrizioni del Vasari e del Condivi) prevedeva un’architettura a pianta rettangolare, chiusa, proiettata verso l’alto a mo’ di piramide, con uno spazio interno grande quanto una piccola chiesa, e questo ovviamente dava ai nervi a Bramante che vi vedeva una piccola cattedrale ergersi dentro la sua. Doveva essere scandito in 3 ordini decrescenti con all’interno la cella sepolcrale cui si accedeva mediante una porta dal lato posteriore. Nel basamento erano previste nicchie con figure di Virtù o Vittorie e 4 grandi statue raffiguranti Mosè, San Paolo, la Vita attiva e la Vita contemplativa. Alla sommità due figure angeliche: una nell’atto di ridere, l’altra di piangere (secondo il Vasari si tratta di personificazioni del Cielo e della Terra), sostenevano un’arca con la statua del defunto. Il complesso puntava all’apoteosi del pontefice, con uno sviluppo ascensionale delle strutture e la progressione simbolica delle immagini fino al transito dalla morte terrena alla vita eterna rappresentato alla sommità del monumento.

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Tuttavia il progetto non venne portato a termine in quanto la colossale impresa della nuova Basilica Vaticana affidata a Bramante assorbiva gli interessi e le risorse finanziarie del pontefice che accantonò il progetto del mausoleo, conferendo in cambio a Michelangelo l’incarico di ridecorare la Volta della Cappella Sistina (di sostituire cioè il cielo stellato dipinto da Piermatteo d’Amelia con figure dei 12 apostoli nei peducci e partimenti geometrici). L’idea di una nuova decorazione del soffitto della cappella incontrava certamente il desiderio di Giulio II di ricollegarsi al suo grande predecessore Sisto IV, ma trae origine immediata da necessità pratiche. Nella primavera del 1504 il processo di assestamento delle pareti dell’edificio aveva provocato l’apertura di una grande crepa nel soffitto; Giulio II provvede a riparare e rinsaldare la volta con catene, ma i danni seguiti dalla riparazione ne rendono inevitabile il rifacimento. Commissionata nel marzo 1508 e finita nell’ottobre del 1512, è veramente la novità che l’arte attendeva per una rivoluzione integrale. Il piano ideologico che sottende le rappresentazioni della Sistina è il più complesso dell’epoca moderna. Certamente Michelangelo si è avvalso della consulenza di qualche dotto prelato e ha prodotto una stupefacente sintesi di forma e contenuto.

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Solo distrattamente possiamo pensare che il soggetto del soffitto, diviso in senso longitudinale, si limiti ad illustrare 9 storie della Genesi, con i suoi vari capitoli della Creazione (L’Eterno separa la luce dalle tenebre – La creazione degli astri – la Separazione della Terra dalle acque – La Creazione di Adamo – La Creazione di Eva)o del Peccato Originale (il Peccato e la cacciata dei progenitori) o del Diluvio e di Noè (Il Diluvio Universale  L’Ebbrezza di Noè – Sacrificio di Noè) disposte in ordine cronologico dalla zona che sovrasta l’altare e supportati da Profeti, Sibille e altri passi biblici. Nei cinque scomparti che sormontano i troni lo spazio si restringe lasciando posto a Ignudi che reggono ghirlande con foglie di quercia, allusione al casato del papa cioè Della Rovere e medaglioni bronzei con scene tratte dal Libro dei Re. Nelle lunette e nelle vele (che raccordano le lunette con la volta) sono rappresentate le 40 generazioni degli Antenati di Cristo, come vengono elencate nel Vangelo di san Matteo; nei pennacchi angolari trovano infine raffigurazione 4 interventi miracolosi in favore del popolo eletto: David e Golia, Giuditta e Olefern, il Serpente di bronzo, il Supplizio di Aman. Il racconto rappresenta l’aspetto minore dell’impresa e, infatti, col progredire dei lavori sui ponteggi l’elemento narrativo si contrae sempre di più, lasciando spazio alla folgorazione dell’immagine. Non si trattad’illustrare una dottrina quanto di dare la dottrina in una con l’immagine. Come è stato giustamente osservato da O’Malley nel suo complesso il progetto iconografico, va letto tenendo presente i sermoni che venivano recitati nella cappella, in essi l’opera di Dio raggiunge il culmine della creazione nella realizzazione dell’uomo a sua immagine e somiglianza e in essi veniva considerata l’incarnazione di Cristo, non tanto per il suo valore di riscatto dell’umanità dal peccato originale, quanto come perfetto e ultimo compimento della creazione divina che ha innalzato l’uomo ancora di più verso Dio; in questo modo appare più chiara la celebrazione che fa Michelangelo della bellezza del corpo umano nudo (es. dalla figura di Adamo nella scena della sua creazione alle immagini degli Ignudi). La volta comunque si basa sul sistema della concordanza tipologica fra Antico e Nuovo Testamento, dove il primo prefigura il secondo; le storie della Genesi vanno lette come prefigurazioni delle storie del nuovo testamento, la prima creazione di Dio, cioè l’uomo, sarà completata con la seconda creazione cioè Cristo, a questa interpretazione si riallacciano le figure dei veggenti su troni (cioè i Profeti e Sibille), poiché quelle a cui assistono non sono eventi passati ma eventi profetici. Quanto alla forma, Michelangelo ha rinunciato ad un unico punto di vista che coordinasse tutte le scene (la volta era troppo lunga e larga per comprenderla con un unico colpo d’occhio); per lui la prospettiva vige di scena in scena e l’insieme è un cosmo di episodi paratattici sul piano visivo e, forse, sintattici sul piano concettuale. Il modello da superare è quello di Paolo Uccello e già Michelangelo se ne distacca operando in orizzontale oltre che in profondità. Lo studio del corpo umano è opera di un artista che pensa ancora da scultore, al tutto tondo, alla rifinitura che apprezziamo nella Pietà, nel Bacco, nel David. L’ebbrezza di Noè esprime il ritorno al peccato dell’uomo dopo quello compiuto da Adamo, ed infatti, il patriarca Noè, addormentato e nudo, è visto in una posizione simile a quella di Adamo al momento della creazione. I personaggi sono guardati come un gruppo scultoreo tradotto in pittura, mentre Noè che vanga è un richiamo ad Adamo lavoratore della terra dopo l’espulsione dall’Eden. Così come avviene per le narrazioni, anche i profeti all’inizio rappresentano la traduzione in pittura di idee scultoriche. La Sibilla Delfica ed il Profeta Gioele sono forme tridimensionali i cui movimenti sono impacciati dalla nicchia architettonica che li comprime. Gli ultimi vati e precursori eseguiti, La Sibilla Libica ed Il Profeta Giona sono svincolati dalla prigione architettonica che li incapsulava e sono dotati di movimenti ariosi, di un dinamismo pienamente pittorico e prebarocco. Giona, per esempio, s’inarca in modo da fuoriuscire del tutto dall’abitacolo della nicchia come se si proiettasse fuori dal ventre della balena. Durante i 4 anni che vedono il Buonarroti impegnato nella Sistina, sensibili risultano le trasformazioni del suo linguaggio figurativo, sul piano della tecnica come su quello dello stile. Mentre le storie di Noè presentano composizioni gremite, concepite quasi come rilievi classici (es. L’ebbrezza o il Sacrificio di Noè) o dominate da forti e dinamiche direttrici diagonali in superficie e in profondità (es. Il Diluvio), già nel Peccato e Cacciata dei Progenitori (4° campata) e nella Creazione di Eva, la raffigurazione diviene più potente: crescono le dimensioni dei corpi, si semplificano i gesti, si riducono i piani in profondità, il Paradiso Terrestre è appena un costone di roccia e un ramo dell’albero di fico, niente più giardini lussureggianti alla maniera quattrocentesca; sulla destra, la Terra è un deserto, il vuoto. I due tempi sono separati dal groviglio dell’albero-colonna e del serpente che vi si è attorcigliato e abbiamo anche l’impressione, che persino l’angelo vendicatore esca dall’albero, come se il bene ed il male rampollassero dalla stessa radice. Il gesto di Eva e la ricezione del frutto rende esplicito che il peccato è di ordine sessuale e Adamo è parte attiva, non fragile esecutore della volontà della donna. Sul piano della forma, la disposizione delle figure crea un arco architettonico. Questa parte è conclusa entro il dicembre 1510 e nel febbraio 1511 Michelangelo licenzia la 6° campata con l’invenzione della Creazione dell’uomo, in cui accentua ulteriormente la terribile energia e grandiosità delle sue immagini, dalla figura di Adamo, chiamato in vita dal tocco dell’Eterno, ai moti turbinosi delle prime tre scene della
Creazione. Dio, scultore, ha formato con la materia il corpo ed ora gli insuffla lo spirito e la vita con un tocco che deve ancora prodursi o si è appena prodotto ed Adamo, torpido, non è ancora al tutto cosciente della propria umanità e ancora un po’ affonda nella terra dalla quale proviene. L’Eterno è energia, dinamismo in una nuvola di vento, e gli angeli che lo contornano, e pare lo sorreggano, sono l’energia primordiale che egli stesso ha generato. Lo iato (soluzione di continuità) colmato dalle due mani che si avvicinano senza toccarsi, l’Adamo spossato ed il Vecchio poderoso entro un mantello vertiginoso, sono passati in proverbio. Tra l’altro, l’Eterno è vestito, in qualche caso solenne come nella Creazione di Eva, perché non c’è altro modo di rappresentare lo spirito, l’energia primordiale, laddove il nudo, la corporeità significa incompiutezza storica, legame non interrotto con la natura, ritrovarsi al di qua della civiltà ancora tutta da inventare. Gli ultimi riquadri eseguiti sono più essenziali, più spirituali rispetto alla narratività dei primi e forse catturano di meno l’immaginazione degli spettatori, ma rappresentano comunque un portentoso corpo a corpo del pittore per penetrare il mistero della creazione. Il primo riquadro, la Separazione dell’Acqua dalla Terra nel quale l’Eterno con un gesto imponente dà impulso alla natura, costituisce la 7° campata finita entro il 14 agosto 1511. Segue poi La separazione del Sole e della Luna che ci mostra un Creatore di tremenda energia, che si volge a creare le piante. Il dipinto più difficile di tutti sul piano concettuale è La Creazione della luce o Nascita del cosmo dal caos, dove il Creatore stesso si avvolge e quasi si dibatte per estrarre e distinguere sé stesso dal caos originario, una specie di autocreazione.

STORIA CAPPELLA SISTINA

 

Non appena eletto papa Francesco della Rovere, nel 1471 col nome di Sisto IV, seguendo l’esempio di Niccolò V (che in seguito la cessazione dell’esilio avignonese del papato nel 1420 avviò un’opera di ripristino dei più antichi monumenti cristiani e grandiosi progetti di ricostruzione urbana), compì un gesto di alto valore simbolico restituendo al popolo romano e facendo collocare sul campidoglio alcuni preziosi rilievi e bronzi antichi, tra cui la Lupa; tra i suoi numerosi interventi sul tessuto urbano e monumentale della città nessuno ebbe maggiore risonanza della ricostruzione e della decorazione della cappella palatina in Vaticano, che più tardi prese il suo nome. Nel corso del 1477 furono avviati i lavori di parziale demolizione di una primitiva e fatiscente cappella decorata da Giottino. La nuova cappella che ereditò tutte le funzioni della precedente e di quella allestita nel palazzo dei papi ad Avignone, sorse sulla fondazione della più antica, utilizzandone in parte le murature. L’edificio presenta in effetti delle irregolarità in pianta che risulterebbero altrimenti difficili da spiegare in una costruzione rinascimentale: le pareti laterali convergono verso quella di fondo, che a sua volta risulta non perfettamente parallela a quella d’ingresso. Il vasto ambiente della cappella lunga più di 40 m e larga 14, è coperto da una volta a botte ribassata, collegata da vele e pennacchi ai muri e illuminata da 6 grandi finestre che si aprono ciascuna sulle pareti laterali. Altre 2 in origine sulla parete
dell’altare venero chiuse quando Michelangelo vi dipinse il Giudizio Universale. La primitiva decorazione a fresco della cappella si svolse in 3 fasi: i un primo momento fu chiamato il Perugino ad affrescare a parete dietro l’altare, cui si unirono probabilmente Botticelli, Ghirlandaio e Rosselli. L’organizzazione della decorazione pittorica appare concepita in stretto rapporto con le proporzioni della cappella. Verticalmente le pareti sono scandite in 3 ordini: quello intermedio accoglie le storie di Mosè a sinistra (antico Testamento) e Cristo a destra (Nuovo Testamento), accompagnate da tituli, la zona inferiore è decorata con finti arazzi e quella superiore presenta figure dei primi pontefici entro le nicchie. Prima che Michelangelo vi dipingesse il Giudizio, la parete di fondo recava sopra l’altare una pala affrescata dal Perugino, raffigurante l’Assunta, cui la cappella era intitolata, con l’immagine del committente (Sisto IV) inginocchiato e in preghiera; mentre la volta presentava una decorazione a cielo stellato affrescata da Piermatteo d’Amelia (come la cappella degli Scrovegni a Padova).

MICHELANGELO SCULTORE

 

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Nel novembre 1497 un cardinale francese, ambasciatore di Carlo VIII presso papa Alessandro VI, lo incaricò di scolpire il gruppo della Pietà, ora nella Basilica di San Pietro, l’ultima scultura del ‘400 opera di un Michelangelo ventiquattrenne. Il tema della Pietà è un tema nuovo nato nell’ambito della cultura tedesca del XIV secolo (si ispirava ai gruppi lignei realizzati a nord delle Alpi, detti Vesperbilder, cioè immagini della Vergine, e collegati alla liturgia del Venerdì Santo), per poi giungere in Italia, inizialmente nell’ambito dei dipinti mobili. Il lavoro è straordinario non solo per il grado di finitezza di tutti i dettagli, ma per le nuove concezioni che vanno dalla struttura piramidale allo studio dell’anatomia, dall’abilità nel moltiplicare le pieghe del manto della Vergine alla capacità di esprimere senza retorica dolore interiore e sofferenza fisica, dalla capacità di armonizzare una struttura orizzontale con una distinta struttura verticale fin quasi a farle percepire come fuse. Maria siede su una roccia che simboleggia il Calvario, possiede un’angolazione diversa dal solito, tiene sulle sue ginocchia il corpo del figlio morto senza toccarlo: tra la mano destra e il torace è posto il velo del sudario, mentre la mano sinistra è rivolta verso l’alto e si apre in un gesto di rassegnazione ad indicare che la volontà di Dio è compiuta. E’ un Michelangelo che coltiva un taglio del marmo che perviene all’ultrafinito (il corpo di Cristo è levigatissimo), in contrasto con l’altra sua tendenza a lasciare una parte del lavoro non finito, come appare nella Battaglia dei centauri (realizzata a Firenze per Lorenzo dei Medici, rilievo raffigurante un tema mitologico suggerito da Poliziano, ispirato alle metamorfosi di Ovidio, è l’episodio del rapimento di Ippodamia da parte dei centauri; rivela l’intento di Michelangelo di raggiungere perfetta concordanza tra soggetto e scelte formali, ispirandosi ai sarcofaghi romani con scene di battaglia e nelle formelle dei pulpiti di Giovanni Pisano).

Altra sua opera giovanile è il Bacco del 1496, oggi al Museo del Bargello (FI). Probabilmente
ispirato dal “Trionfo di Bacco e Arianna” componimento poetico di Lorenzo dei Medici (Michelangelo era entrato a far parte delle grazie di Lorenzo il Magnifico, che aveva accolto il giovane nella sua casa come un figlio aprendogli le sue raccolte antiquarie e consentendogli la frequentazione di un ambiente di letterati ed umanisti, da Poliziano a Marsilio Ficino, dove si era ormai affermata la considerazione dell’attività artistica come attività intellettuale e tra le più alte dal punto di vista dell’ispirazione e del furor creativo), raffigurò il soggetto come un adolescente in preda all’ebbrezza, opera che, grazie alla resa naturalistica del corpo, raggiunse effetti illusivi e tattili simili a quelli della scultura ellenistica. Il dio del vino si trova in una posizione ponderata, contrapposta, cioè con la gamba sinistra stante, su cui poggia tutto il peso del corpo, mentre l’altra è flessa, poggiando a terra solo le dita del piede. Viceversa il braccio destro si piega a sostenere una coppa mentre l’altro ricade lungo il corpo tenendo una pelle ferina (di animale, forse leone e allude alla morte), collegata a grappoli d’uva e pampini, presenti anche sul capo (richiamano la propria divinità-dio del vino). Punti forti della scultura furono straordinaria espressività e l’elasticità nelle forme, unite al tempo stesso con un’essenziale semplicità dei particolari. Ai piedi di Bacco scolpì un satiretto che bilancia la composizione e che sta mangiando qualche acino d’uva dalla mano del dio: questo gesto destò molta ammirazione in tutti gli scultori del tempo poiché il giovane sembra davvero
mangiare dell’uva con grande realismo. L’aspetto del satiro è meno levigato rispetto al Bacco. Il Bacco è una delle poche opere perfettamente finite di Michelangelo e dal punto di vista tecnico segna il suo ingresso nella maturità artistica.

01_David.jpgBen più prestigiosa è la committenza giunta dai consoli dell’Arte della Lana e dall’Opera del Duomo, quella di scolpire una figura gigantesca di David, in un blocco di marmo alto 9 braccia, malamente sbozzato da Agostino di Duccio quasi 40 anni prima. Scolpito da Michelangelo con ostentato virtuosismo nella resa dei particolari anatomici, si allontana radicalmente dalla resa tradizionale dell’iconografia dell’eroe biblico (es. quello adolescente realizzato da Donatello), si sostituisce una figura atletica di giovane nel pieno delle forze, non ancora vincitore, ma che si appresta alla lotta sollevando fieramente il volto corrucciato e che nella tensione di tutte le sue membra manifesta una concentrazione di energie fisiche e psichiche; è la perfetta incarnazione dell’ideale fisico e morale dell’uomo del Rinascimento: la scultura collocata di fronte Palazzo Vecchio assumeva dunque un significato simbolico: proteggere la nuova Repubblica fiorentina (le cui virtù – ira e fortezza – sono le stesse simboleggiate dal David).

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Michelangelo riprenderà anche i lavori per il monumento funebre di Giulio II che si conclude solo nel 1545 con il monumento che si può vedere in S. Pietro in Vincoli: nel monumento attuale, della prima fase dei lavori resta solo il Mosè (1513 c.) seduto, gigante di m. 2,35, che doveva occupare un angolo nel primo piano ed ora si trova nella nicchia centrale alla base. Purtroppo la nicchia in cui la statua è compressa attenua leggermente la rotazione della figura che, in compenso, diventa la più importante del complesso. Mosè rappresenta l’istituzione della legge, il colloquio diretto con Dio, il condottiero che ha guidato il popolo alla libertà. Nella Tomba Mosè sta sotto il corpo giacente del papa, colui che in epoca moderna avrebbe replicato tutto ciò per la cattolicità. Mosè sviluppa in forme più mature e complesse, attraverso il contrasto tra il corpo apparentemente in quiete, la tensione degli arti e lo scatto della testa, il motivo già dominante del David, di una terribile concentrazione psichica, energie controllate sul punto di tradursi in azione. A lato, le figure di Lia e Rachele, la vita attiva e la vita contemplativa, sono un’aggiunta michelangiolesca degli anni ’40, mentre il papa sdraiato sul sarcofago (alla maniera etrusca) e la Vergine sono un completamento di bottega. Due disegni consentono di ricostruire il secondo progetto per la sepoltura; in particolare un disegno di Jacopo Rocchetti (copia di un originale michelangiolesco), mostra il prospetto della tomba non più isolata, ma destinata ad essere addossata alla parete per uno dei lati minori. Rispetto al primo progetto diminuiscono le dimensioni del sacello in profondità, ma si accentua lo sviluppo verticale. Per il secodo ordine erano previste 6 statue anziché 4 e nella zona superiore dovevano trovare collocazione una grande Madonna col Bambino, in atto di liberarsi al di sopra della figura del pontefice semigiacente sul sarcofago e sorretta da angeli come un Cristo in pietà. I motivi classici e trionfali del mausoleo si attenuano in favore di una ripresa di elementi più tradizionali.

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A Roma nel 1513 Michelangelo scolpisce anche due statue di prigioni, generalmente noti come lo schiavo ribelle e lo schiavo morente, che richiamano da vicino le figure degli Ignudi e dei Profeti della volta della Sistina. Mentre nello schiavo ribelle la figura ignuda in atto di divincolarsi si carica di straordinaria carica espressiva, lo schiavo morente manifesta nel lento ed armonioso snodarsi delle membra, l’idea del risveglio e ritorno alla consapevolezza all’abbandono, allo stato di incoscienza del sonno.

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L’ultima in ordine di tempo, del 1555 ca. è ancora una Pietà (h. 1,95 m., Milano, Castello Sforzesco) che prende il nome dal Palazzo Rondanini in via del Corso nel quale doveva esser collocata sulla sua tomba. In quest’opera sono lontane la bellezza classica della Pietà di S. Pietro e la potenza titanica del David. Il tema della Pietà non è inteso come compianto ma come presentazione al mondo, affinché si vergogni delle proprie colpe. Infatti Michelangelo oppresso dai sensi di colpa, dall’idea del peccato, cambiò la struttura della raffigurazione, quasi assorbendo il corpo del figlio in quello della madre. Il corpo dell’uomo è abbandonato, il suo fisico crolla definitivamente privato di energia. La madre lo sovrasta, lo protegge, lo riassume in sé come ritorno al grembo. La materia è scabra, non finita per il doppio motivo della non conclusione psichica della redenzione e di quella materiale della propria vita che muore. Il valore di quest’opera è dato proprio dal suo essere presentata come un frammento. Più volte infatti è stato notato che non solo molte delle grandi imprese concepite dal Buonarroti rimasero incompiute o trovarono realizzazione in forme molto lontane dal progetto originario (es. tomba Giulio II), ma anche che numerose opere di scultura furono lasciate allo stato di abbozzo e comunque presentano parti condotte a un livello di finitura diverso rispetto ad altre. Il Vasari ha messo in evidenza come questa attitudine di Michelangelo abbia una spiegazione di natura psicologica, dovuta ad una profonda e ricorrente scontentezza nei confronti della propria opera, ciò trova riscontro nel carattere un po’ burbero eirrequieto di Michelangelo. Egli concepiva la scultura come arte che si esercita per forza di levare e non per via di porre (cioè modellando una materia duttile); aggrediva il blocco di pietra da una delle facce, facendo gradualmente emergere le forme (es. Prigioni).

L’ARCHITETTURA DI S. PIETRO

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Nel 1506 Giulio II affida a Bramante la ripresa dei lavori della fabbrica di San Pietro (Bramante propone una croce greca iscritta in un quadrato, quattro cupole a corona della cupola centrale e una fitta serie di pilastri e colonne che creano delle membrane trasparenti atte a dilatare gli spazi; l’effetto doveva esser simile a quello che si vede nella Scuola d’Atene, un impianto maestoso, perfettamente equilibrato in tutte le sue parti, con un invaso centrale che si espande verso i muri perimetrali). Alla morte di Bramante nel 1514, Leone X affida a Raffaello, a Fra’ Giocondo e a Giuliano da Sangallo la prosecuzione dei lavori, con progetto di Raffaello (Raffaello mantiene l’idea di Bramante solo per il transetto, mentre sulla totalità della pianta preferisce tornare alla croce latina). Morto questi, viene nominato Antonio da Sangallo con a fianco Baldassarre Peruzzi, che resta capo del cantiere dal 1530 alla morte nel ’36. Paolo III nel 1538 rinnova l’incarico ad Antonio da Sangallo il giovane fino alla sua morte avvenuta nel ’46. Da questo momento subentra Michelangelo, il cui progetto viene considerato definitivo. Con poche correzioni, ma fondamentali, Michelangelo torna all’idea di Bramante: pianta a croce greca inscritta in un quadrato, le colonne sono state riassorbite nei pilastri, questi creano un continuum lungo il perimetro della chiesa. L’idea di Michelangelo è che la chiesa, all’esterno, deve apparire come un enorme podio per la cupola (pensata in ricordo di quella dei S. Maria del fiore di Brunelleschi). Tutto il corpo di fabbrica deve sfidare i limiti della resistenza tettonica: le membrature, le decorazioni, gli stessi muri sono poderosi per sostenere la doppia calotta che viene gonfiata dalla pressione interna, ma che si presenta tenuta a freno dalle colonne binate del tamburo e quindi dai costoloni. Da un lato Michelangelo quindi, ridimensiona l’enorme spazio dell’edificio tornando alla pianta centrale, dall’altro conferisce all’insieme grande monumentalità, imponenza strutturale e simbolica. Ogni architetto vuole lasciare la propria impronta sull’epoca e avvenne così che Giacomo della Porta alterò, rialzandola di qualche metro, la curvatura della cupola che sarebbe dovuta essere semisferica (1588-90). La lanterna fu ultimata nel 1593. Molto più grave l’allungamento di più di 50 metri apportato alla navata da Carlo Maderno, che fa perdere l’idea del podio e impedisce la visione della cupola dalla piazza antistante, così come la danneggia anche all’interno.